L'arte dell'equilibrista: la corsa come metafora di vita
Molte persone si avvicinano al mondo dello sport con lo scopo di combattere la sedentarietà della propria vita. È quello che è successo al Professor Luca Grion, insegnante di filosofia morale presso l’Università di Udine e presidente dell’Istituto Jacques Maritain e del Centro Studi Jacques Maritain. Per contrastare gli effetti indesiderati di una vita frenetica, ma sedentaria, il Professor Grion ha deciso di iniziare a correre. E, così come è accaduto alla maggior parte dei runner, non è più uscito dalla splendida spirale che è il mondo della corsa, lasciandosi affascinare dalle discipline di resistenza, in particolare la maratona.
Dal connubio tra corsa e filosofia, il Professor Grion è stato in grado di trarre l'ispirazione per la stesura di un libro, nel quale, insieme ad altri autori, riflette sulla pratica sportiva come metafora di vita. Il titolo del libro è "L'arte dell'equilibrista. La pratica sportiva come allenamento del corpo e formazione del carattere" (Edizioni Meudon), a questo link potete scaricare l'introduzione, l'indice e le biografie degli autori.
Di seguito potete leggere una breve intervista che il Professor Grion ci ha gentilmente concesso.
Professor Grion, Lei si definisce “apprendista maratoneta”. Pensa che è stato anche grazie alla maratona, regina delle discipline olimpiche, che ha maturato l’idea di scrivere “L’arte dell’equilibrista”?
Mi permetta una piccola premessa: io ho cominciato a correre per contrastare gli effetti indesiderati di una vita che, per quanto frenetica, era pur sempre una vita sedentaria; i primi obiettivi erano quindi vincere la battaglia contro la bilancia e contro lo stress. Poi mi sono piacevolmente lasciato “prendere la mano”, e ho iniziato a mettermi alla prova con qualche competizione amatoriale, comprese alcune maratone. Della corsa di resistenza mi ha da subito affascinato la corrispondenza tra impegno profuso e risultati raccolti. La maratona, infatti, è una disciplina nella quale l’impegno, la costanza, la determinazione, la fatica vengono, per lo più, ripagate. Nella vita, invece, le cose non vanno sempre allo stesso modo. Ho scoperto così il gusto dell’agonismo adulto, particolarmente coinvolgente quando condiviso con amici che rendono il gioco ancora più piacevole.
La cosa interessante è stato poi vedere, da studioso, quante assonanze vi fossero tra la pratica sportiva a cui mi dedicavo nelle ore libere e l’etica delle virtù che insegnavo all’università. Quasi naturalmente la corsa è divenuta un ricco paniere di esempi e di allegorie a cui attingere per tradurre, in termini più facilmente accessibili, quanto i classici suggerivano rispetto alla formazione del carattere e all’educazione dello spirito. Corsa come metafora di vita, quindi.
La pratica sportiva ha influenzato il mio lavoro anche in un secondo modo: mi ha infatti sollecitato a confrontarmi con tutta una serie di tematiche che, fino a quel momento, non avevo affrontato in modo sistematico: non solo il problema doping, ma l’eccessiva spettacolarizzazione, il narcisismo diffuso, la mercificazione dei valori, l’incapacità degli adulti di vivere con equilibrio la dimensione del gioco. Sia chiaro, nello sport non ci sono solo note stonate, anzi. Accanto alle zone d’ombra vi sono moltissime promesse di luce: il suo potenziale educativo, aggregativo, ricreativo. Potenzialità che ritenevo, e ritengo, debbano essere valorizzate. Lo sport come palestra di vita buona, dunque.
Da tutto questo – dal desiderio di mettere in luce il bello e il buono, ma altresì di denunciare senza sconti il brutto e il disdicevole – è nato prima un ciclo di incontri pubblici dedicati all’etica dello sport e poi questo libro.
Nel suo libro, Lei afferma che uno dei principali ingredienti della pratica sportiva è la sfida personale. Pensa che lo sport rappresenti un modo per conoscersi meglio, affrontando i propri limiti, oltre che fisici, anche mentali?
La sfida con se stessi dovrebbe essere l’essenza della pratica sportiva. Come ha scritto con efficacia Damiano Tommasi nel suo contributo, «lo sport non dovrebbe essere concepito come un’attività attraverso la quale distinguere il brocco dal campione, ma come uno spazio nel quale ingaggiare una sfida con se stessi mettendosi in gioco. E questo mettersi in gioco implica coraggio, sacrificio, impegno». In questo consiste il potenziale educativo della pratica sportiva, ma non è affatto scontato che le cose vadano così.
Affinché ciò avvenga è necessario che maturi la consapevolezza del valore formativo dello sport. Deve maturare negli allenatori a cui sono affidati i nostri figli e deve maturare negli adulti che in numero sempre maggiore continuano, e molto spesso iniziano, a praticare uno sport. Serve dunque un grande lavoro culturale. È essenziale, ad esempio, che i giovani che intraprendono un percorso di studi con l’obiettivo di diventare allenatori o dirigenti sportivi siano formati, anche, per rispondere in modo consapevole al loro ruolo di educatori e formatori. Il settore ludico-sportivo rappresenta infatti un’agenzia educativa di primaria importanza, che se gestita con intelligenza e consapevolezza, può veicolare in modo piacevole e non retorico valori importantissimi: la tenacia, la temperanza, il coraggio, la generosità, l’amicizia, ecc. Soprattutto può insegnare ad apprezzare il gusto della sfida con se stessi, la soddisfazione di scoprirsi migliori di quanto si immaginava, l’umiltà di accettare che qualcun altro possa essere migliore di noi (e senza che questo ci impedisca di apprezzare il valore dei nostri risultati). Ma affinché lo sport possa realmente accompagnare il percorso di crescita morale e civile dei giovani (e non solo), è necessario che tale ruolo educativo sia esplicitamente riconosciuto, incoraggiato e praticato.
Uno dei punti sui quali si sofferma nel suo libro riguarda i mali che feriscono e umiliano il mondo dello sport. Uno di questi è il doping. Vuole fare un appello a tutti coloro i quali si fanno tentare da queste pratiche che, oltre ad andare contro i principi etici dello sport, rappresentano un rischio per la propria salute?
Nel libro si parla molto di doping, con particolare attenzione alla sua preoccupante diffusione in ambito amatoriale; ne parlano gli sportivi, ne parlano gli psicologi, ne parlano i medici, perché il doping è un problema di regole infrante e di scorrettezza nei confronti degli avversari, è un problema del singolo nel rapporto con se stesso, con la propria autostima, con le proprie frustrazioni; è un problema col proprio corpo, ridotto a mero meccanismo da truccare, incuranti delle conseguenze.
Detto ciò – e la premessa è essenziale – credo che il doping non sia tanto una questione di regole, né di salute o di autonomia individuale. È, soprattutto, una questione di (im)maturità dell’adulto, incapace di essere realmente tale, anche a dispetto dell’anagrafe. Basta leggere le cronache che ci raccontano delle risse tra i genitori a bordo campo. Quali sono i bambini? Quelli che inseguono un pallone cercando di divertirsi o quelli che sbraitano sugli spalti? Probabilmente i bambini sono i più maturi, ma il cattivo esempio degli adulti prima o poi li farà regredire.
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